Riflessioni fotografiche
Il patto tra Morte e Fotografia
Il patto tra Morte e Fotografia
In questo nuovo secolo che per età è ancora adolescente ho vissuto, come è destino per molti umani, diverse perdite. La vita è una sorta di computo fatto di somme e sottrazioni. Tra amici scomparsi, consegnati all’invisibilità dalla malattia, ho visto svanire anche un terabyte di dati da un mio hard disk.
Non ho mai fatto mistero nel considerare la Fotografia una grandiosa metafora del nostro vivere.
Al di là della putrefazione dei byte di cui parla Vint Cerf (1), dietro l’angolo c’è sempre la morte intesa come “scomparsa”.
Quando la scatoletta dei ricordi, che sino a pochi minuti prima andava, ha cessato di mostrare al mio computer dati, foto e film, ho provato uno smarrimento non così distante da una telefonata che mi informò dell’improvvisa dipartita di mia nonna.
Quando muore qualcuno rivedi in pochi minuti, come in un trailer, tanti momenti trascorsi con lei e, per questo, devi ringraziare il sistema limbico,che si trova sulla superficie interna del lobo temporale e include l’ippocampo e l’amigdala. Lo stesso è accaduto per il contenuto dell’hard disk. Con gli occhi rivedevo l’azzurro di cartelle contenenti testi e la loro disposizione in un’ideale schermata.
Se il paragone vi pare l’azzardo di un pazzo, mi preme ribadire che la fotografia è l’amore della mia vita e a lei, per quanto mi riguarda, sono connesse mille altre cose: scritti, documentari etc.
Qualche giorno dopo ho provato un senso di serenità, quasi di liberazione, ma ho fatto un collegamento senza necessitare di una porta usb o di Wi- Fi: noi umani abbiamo una scadenza che non conosciamo e siamo destinati quindi ascomparire.
Cosa resterà di noi se non ricordi, opere e fotografie?
Quando guardi un’immagine di te a quattro anni sul balcone, lo stesso terrazzo sul quale oggi cinquantasettenne esci per dar da bere alle piante, vieni a congiungerti con lontane atmosfere, presenze remote e scomparse e poi, via via, con un te stesso fanciullo. A questo punto forte di un’esperienza extracorporea generata dalla fotografia ti domandi : “Ma io dove sono ? Qui o là dentro?”.
Eraclito disse: “Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte”. L’aforisma vuole alludere al fatto che ogni volta l’acqua del fiume è diversa, sicché diverso è il tuo entrarvi dentro ed anche diverso è il te stesso che vi si immerge.
Roland Barthes, nel suo “La camera chiara”,così ricorda come, in una sera di novembre, riordinando vecchie fotografie dopo la recente scomparsa della madre, trovando una sua vecchia inquadratura a cinque anni di età: “Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani … tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva sostenuto per tutta la vita: l’affermazione di una dolcezza”.
Nel volto e nell’attimo di questo, colto dalla fotocamera, riemerge un gesto, una luce, una situazione che conferisce a quella foto l’autorità per far parlare il soggetto che raffigura.
C’è stato anche un momento molto doloroso in cui mi trovai attonito innanzi al corpo di mia nonna morta in ospedale dopo che le erano state espiantate le cornee.
Guardavo la scena da nipote e ricordavo che mi faceva giocare, mi insegnava a scrivere, mi raccontava fiabe. Ora tutti quei ricordi erano lì accanto a un piccolo corpo esanime come uno straccio steso sfilato dal vento e caduto in un cavedio. Non volevo credere ai miei occhi eppure ciò che vedevo era vero e definitivo. Mia nonna era morta. Fine di tutto.
Avevo con me una piccola bridge digitale. La luce era livida nella camera mortuaria rischiarata da tubi al neon. Aprii lo zaino che ho sempre con me e fotografai ciò che restava di mia nonna, quella scena cui non avrei mai voluto assistere. La fotografia in quel momento mi servì per ricordare ciò che col tempo avrei dimenticato.
Mio nonno Alessandro, suo marito, morì nel1977 consumato dal cancro. La sua immagine sul letto di morte lentamente svanì dalla mia memoria per lasciare spazio al nonno sorridente che avevo tanto amato. Qui operai diversamente e solo oggi nel 2018, tredici anni dopo la scomparsa, riesco a guardare quell’immagine “come una mia fotografia”.
Oggi c’è chi pensa che tutto ciò che non è fotografato sia perduto, come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può.
La fotografia, che non dimentichiamolo ha una forte valenza sociale, dalla sua nascita s’è arrogata giustamente il compito del media per eccellenza preposto a raccontare l’uomo e le storie del mondo.
Fin da quando vennero inventate, le macchine fotografiche stabilirono con la morte un rapporto privilegiato: negli interni familiari funzionavano a fissare preventivamente la fisionomia dei propri cari, prima che diventassero “cari estinti” , mentre in esterni inseguivano le azioni di guerra selezionando le atrocità da mostrare e quelle da occultare; quando non si dedicarono a ritrarre i prigionieri politici e i presunti avversari dell’ideologia al potere, pochi istanti prima che venissero fatti fuori.
Nelle immagini del tardo 19° secolo, scopriamo una consuetudine piuttosto diffusa in Europa, quella di farsi fare ritratti fotografici con i parenti morti. I nostri antenati erano molto più a contatto con la morte di noi. Un secolo fa, quasi tutte le famiglie avevano perso almeno un bambino piccolo, e la morte faceva parte della vita molto più che non nell’epoca odierna.
Ulteriormente, durante la seconda parte dell’800, i cimiteri si erano allontanati dal centro città per raggiungere le periferie, e le visite ai morti, che prima erano quotidiane, divennero meno frequenti e più lunghe. Non potendo andare a trovare ogni giorno i propri defunti, le famiglie avevano la possibilità di sentirsi più vicine ai loro cari se possedevano una loro fotografia (anche da morti). A volte venivano aperti gli occhi dei defunti,oppure lo stesso effetto veniva ricreato intervenendo col ritocco delle lastre per dare l’impressione che fossero ancora vivi.
La fotografia è da sempre legata al concetto di scomparsa o trapasso, non a caso il tema portante del saggio di Barthes “La camera chiara” è il rapporto che la Fotografia intrattiene con la morte.
L’anticamera della morte è spesso la malattia, sarebbe quindi opportuno prestare attenzione al monito di Vint Cerf circa lo stato di “non ottima salute” di cui gode l’immagine binaria.
“La tecnologia digitale rischia di trasformare il ventunesimo secolo in un nuovo Medioevo, un’epoca quasi inaccessibile alla storia. Via via che i sistemi operativi e i software vengono aggiornati, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie diverranno sempre più inaccessibili.” (1)
Note (1) http://www.huffingtonpost.it/2015/02/13/vint-cerf-google-desertodigitale_n_6677452.html
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