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Daevid Allen
Il soffio spaziale di Daevid Allen di Guido Festinese
Anniversari/Dieci anni fa se ne andava il visionario artista australiano, leader e fondatore dei Gong Chitarrista e poeta, passato attraverso innumerevoli avventure sonore, non ha mai ceduto alle lusinghe del mercato
Ci sono musicisti che sembrano provenire da un altro pianeta. Vedi alla voce Herman Poole Blunt, in arte Sun Ra. Lui sosteneva di arrivare da Saturno, e in effetti la sua musica, crogiolo perfetto di afro-futurismo, ha fatto e continua a far pensare a qualcosa di alieno e di familiare al contempo, nella proiezione siderale di desiderio e voluttà, memoria storica della gente nera trascinata in catene nelle Americhe e propensione al futuro, anche tecnologico. Ci sono musicisti che il pianeta «altro» se lo inventano, lo descrivono, ci costruiscono sopra la propria poetica e un’intera estetica.
Alla fine quel pianeta sembra un mondo reale e abitabile da gente di buona volontà e idee non catalogabili alla voce ovvietà, come la terra degli hobbit o il mondo oltre lo specchio di Alice. Qui il riferimento va diretto a un signore australiano scomparso esattamente dieci anni fa a settantasette anni, Daevid Allen, che forse è tornato a vivere nel pianeta che ha descritto mille volte, nelle sue musiche, il pianeta Gong.
SIMBOLO SPIRITUALE
Gong: Nome anche di uno strumento musicale, simbolo di spiritualità per ben radicate culture orientali. Ma anche di una fortunata e snob rivista musicale degli anni Settanta italiani che fece conoscere agli assetati musicofili di allora le bibite rinfrescanti di molta musica senza definizioni possibili in tempo reale, a cavallo tra i generi, sempre un po’ in anticipo sull’hic et nunc del mainstream. Come i Gong. Il signore del pianeta Gong è stato Daevid Allen, principe d’eccellenza dei «freak» anni Sessanta e Settanta passato attraverso mille avventure sonore e di vita, fondatore di gruppi ed ensemble notevoli, oltre e accanto ai Gong, maestro della chitarra slide, poeta e libertario estremo sino alle soglie imperscrutabili della visionarietà, mai arresosi alle pure e nude lusinghe del mercato. E per questo rimasto sempre un passo avanti.
Daevid Allen era nato a Melbourne, Australia nel 1938: la generazione che imposta i cardini del rock classico, psichedelico e progressivo. A diciotto anni, dunque nel 1956, quando il rock sta muovendo passi seminali, folgorato da un disco di Sun Ra (certi nomi ritornano!) comincia a studiare chitarra jazz e contemporaneamente, lavorando per raggranellare qualche spicciolo in una libreria, scopre i poeti e gli scrittori della Beat Generation. Doppia folgorazione: per una musica più libera, per un modo di scrivere che attinge nuove, imprevedibili profondità, e anche per l’arte contemporanea tutta.
IN EUROPA
Nel 1960 è già in Europa, un vagabondo protofreak innamorato di ogni aspetto creativo. Prima in Grecia, poi a Montmartre, Parigi, residenza al leggendario Beat Hotel, infine a Canterbury, Inghilterra. Altra folgorazione. Trova da dormire in casa Wyatt, i genitori socialisti del giovane Robert, in seguito forse il musicista più amato e rispettato della cosiddetta «scena di Canterbury». C’è un fermento indefinito nell’aria, i Beatles devono ancora arrivare. Lui conosce, oltre a Robert, Hugh Hopper, Mike Ratledge, Kevin Ayers. È il primo nucleo dei Soft Machine, che contribuirà a formare, dopo aver provato un ensemble a tre con Wyatt e Hugh Hopper, un bel misto tra free jazz, rock primitivo e poesia beat, portando in dote la sua collezione di dischi jazz, generose doti d’erba da fumare, e un senso della libertà che sta stretto perfino nel jazz.
Il nome Soft Machine ha una storia dietro: viene fuori dall’incontro a Parigi di Allen con lo scrittore William Burroughs, che ha scritto un racconto proprio con quel nome, e il compositore minimalista Terry Riley. Lì Allen impara, da Riley, a usare i tape loop sui registratori, tecnica che affinerà negli anni e per decenni, cardine della psichedelia.
I Soft Machine con Daevid Allen nascono ufficialmente nel 1966. Diventano in breve uno dei nomi d’oro dell’Ufo Club, il locale di Londra dove si riuniscono tutti i giovani alternativi a caccia di nuova musica, assieme ai nascenti Pink Floyd. Spesso suonano anche allo Speakeasy Club, e lì Allen scambia idee e tecniche sulla chitarra con un certo Jimi Hendrix, dopo aver apprezzato e incamerato il visionario glissando sulle corde di un altro geniaccio, Syd Barrett, il «diamante pazzo» dei Pink Floyd. I Gong nascono invece quasi per caso: I Soft sono in tour in Francia, e al momento del ritorno in Inghilterra Allen ha il visto scaduto, si deve fermare lì. Già dall’inizio Gong è un progetto visionario, in piena consonanza con lo spirito del tempo: Allen sogna di essere, lui stesso, la concrezione umana di un esperimento di altri esseri, i Dottori dell’Ottava Musicale, creature benevole che alimentano la vita con la musica. È il nucleo della mitologia Gong, incarnato nella Banana Moon Band con Gilli Smyth, sua compagna nella vita e poetessa freak, in arte Shakti Yoni.
PELOUCHE E POESIE
Nel maggio del ’68, quando volano le bottiglie molotov per le strade di Parigi Daevid Allen lancia invece orsetti di peluche ai poliziotti e declama poesie: ne è rimasta traccia in un film. Scappa a Maiorca con Gilli, nasce nel 1969 il primo disco Gong, Magick Brother, cui farà seguito l’immaginifico Camembert électrique. È l’inizio di un’epopea che mette assieme humour e surrealtà, ricerca musicale e filastrocche infantili, melodia e «space whistle», i sussurri cosmici di Gilli Smyth, ormai alter ego al femminile di Daevid. Zero the Hero diventa il narratore principe della saga Gong, i messaggeri dei «dottori delle ottave» sono i «pot head pixies», gnomi verdi che vagano nello spazio e arrivano sulla terra su teiere volanti. Nel periodo compreso tra il ’72 e il ’74 nascono i dischi capolavoro dei Gong e della relativa saga narrativa, mille volte copiati e spunto di ispirazione per generazioni di sperimentatori: Flying Teapot, Angel’s Egg, You.
La band è un vero e proprio collettivo-comune aperta, gli spettacoli un happening continuo psichedelico e progressive ricolmo di colori e luci, di profumi, di bizzarrie assortite che non diventano mai puro caos. Loro la chiamano Floating Anarchy, «anarchia fluttuante», ma i Gong riescono a seguire un robusto filo narrativo, saldamente nelle mani di Daevid Allen e di musicisti di assoluto valore, come il chitarrista Steve Hillage.
Il musicista australiano non è però tipo da dormire sugli allori: negli anni Ottanta chiude con quel tipo di situazione, è a New York a fianco di Bill Laswell con i nuovi New York Gong, sciabolate punk rock elettriche e antichi sogni hippie assieme. Poi torna in Australia, e sono anni difficili, si ritrova anche a fare l’autista, per vivere. Non è finita, però, arriva una terza fase di vita: la University of Errors negli States, con giovani musicisti che credono in quel che credeva John Coltrane: «Non esistono gli errori in musica: esistono solo le nuove idee», la Invisible Opera Company of Tibet, e poi, dagli anni Novanta, la reunion dei Gong storici (e no) che tutto è meno che nostalgia canaglia.
INESAURIBILE ENERGIA
Le energie e le idee di Daevid sembrano inesauribili e sortiscono sempre concerti e dischi da tenere nello scaffale privilegiato, nella mente e nel cuore, come Zero and the Infinity, del 2000. Nuova coraggiosa avventura nel 2003: con Gilli e suo figlio fonda, assieme a membri dei poderosi Acid Mother Temple, band giapponese nata anche grazie alle intuizioni dei Gong, gli you’N’gong, bel gioco di parole (e di musica) che letto suona come «il giovane Gong». L’ultimo capitolo Gong con Daevid del 2014, I See You: «Ti vedo», ma anche «ci vediamo, a presto».
Perché Allen se ne va per un tumore recidivo con una lettera allegra e struggente ai fan da par suo: «Salve a tutti kookaburra (il Martin pescatore australiano, ndr), il cancro è tornato con successo, stabilendo la sua dimora dominante nel mio collo. Credo che sia arrivato il momento di smettere di opporre resistenza e arrendersi a come le cose devono andare. Posso solo augurarmi che durante questo viaggio io abbia in qualche modo contribuito a portare la felicità nelle vite di alcuni altri compagni umani. Grazie molto per essere stati con me, e per il vostro Oceano d’Amore».
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