Varie
Il Lago
The Lake – Ray Bradbury 1944
Ritagliarono il cielo a mia misura e lo gettarono sul lago Michingan, misero sulla sabbia gialla dei bambini con una palla che rimbalzava, un genitore scontento, e me che uscivo dalle onde per trovare questo mondo molto squallido e bagnato. Corsi sulla spiaggia. La mamma mi dette una botta con un asciugamano di spugna. “Sta’ fermo e asciugati” disse. Stetti fermo a guardare il sole che mi portava via dalle braccia le gocce d’acqua. Io le sostituii con la pelle d’oca. “Che vento!” disse la mamma. “Mettiti la maglietta”. “Aspetta che mi guardo la pelle d’oca” dissi io. “Harold!” Mi misi la maglietta e guardai le onde che salivano sulla spiaggia e si ritraevano. Ma in modo non goffo. Come se sapessero quello che facevano, con una sorta di verde eleganza. Neanche un ubriaco sarebbe stato capace di cadere con l’eleganza di quelle onde. Era settembre. Gli ultimi giorni di settembre, quando le cose si fanno tristi senza una ragione. La spiaggia era lunga e solitaria, con solo sei persone. I bambini smisero di far rimbalzare la palla perché, in qualche modo, il vento aveva rattristato anche loro, fischiando come fischiava, e i bambini si sedettero e sentirono arrivare l’autunno lungo la spiaggia infinita. Tutti i baracchini degli hot dogs erano stati chiusi con assi di legno dorato, che sigillavano dentro l’odore di senape, cipolle e carne della lunga estate gioiosa. Era come rinchiudere l’estate in una serie di bare, Uno a uno, i locali chiudevano, mettevano i lucchetti alle porte, e arrivava il vento a toccare la sabbia, spazzando via il milione d’impronte di luglio e agosto. Tant’è vero che ora, in settembre, c’erano solo i segni delle mie scarpe da tennis e dei piedi di Donald e Delaus Schabol, già vicino alla curva dell’acqua. La sabbia volteggiava come una cortina sui marciapiedi, e la giostra era nascosta da teloni, con tutti i cavalli come pietrificati a mezz’aria sui loro tubi d’ottone, i denti scoperti, al galoppo. Con solo il vento per musica, a fischiare fra i teloni. Stetti fermo. Tutti gli altri erano a scuola. Io no. Domani sarei stato su un treno, diretto a ovest attraverso gli Stati Uniti. La mamma ed io eravamo andati sulla spiaggia pér un ultimo momento. In quella solitudine c’era qualcosa che mi fece venire la voglia di andarmene da solo. «Mamma, voglio fare una corsa sulla spiaggia». «Va bene, ma torna presto e non avvicinarti all’acqua.» Corsi via. La sabbia schizzava sotto i miei piedi e il vento mi sollevava. Sapete com’è, quando si corre con le braccia spalancate in modo da sentire dei veli sulle dita, causati dal vento. Simili ad ali. La mamma si ritrasse in lontananza, seduta. Presto fu solo una macchia
scura, ed io ero solo. Essere solo è una novità, per un bambino di dodici anni. È così abituato ad avere intorno della gente! L’unico modo che ha per essere solo è nella mente. Ci sono sempre molte persone reali che dicono a un bambino quello che deve fare e come deve farlo, tanto che il bambino deve correre giù per una spiaggia, anche se solo mentalmente, per trovarsi nel suo mondo, con i suoi valori in miniatura. E così ora ero veramente solo. Scesi in acqua e lasciai che salisse fredda contro il mio stomaco. Prima d’allora, con la gente, non avevo mai osato guardare, venire in quel punto e cercare nell’acqua e chiamare un certo nome. Ma ora… L’acqua è come un mago. Che ti sega a metà. È come se ti tagliassero in due, una parte di te, la parte inferiore, che si scioglie, si dissolve. Acqua fredda, e di tanto in tanto un’onda che rotola elegante, con un ghirigoro di pizzo. Chiamai il nome di lei. Una decina di volte, lo chiamai. «Tally! Tally! Oh, Tally!». Strano, ma quando si è giovani ci si aspetta veramente che qualcuno risponmda ai nostri richiami. Si e’ convinti che qualunque cosa si pensi, possa realizzarsi. E a volte, forse, non e’ neanche tanto sbagliato. Pensai a Tally, che, il maggio precedente, nuotava nell’acqua, con la coda di cavallo che galleggiava, bionda. Continuava a ridere, e il sole batteva sulle sue piccole spalle da dodicenne. Pensai all’acqua che si calmava, al bagnino che ci saltava dentro, alla madre di Tally che urlava, e a come Tally non era più venuta fuori. Il bagnino aveva tentato di convincerla a venir fuori, ma lei non aveva voluto. Il bagnino era tornato con solo pezzi d’alga sulle dita tozze, e Tally era scomparsa. A scuola non sarebbe più stata seduta vicino a me, e non avrebbe più dato calci alla palla sulle strade nelle notti estive. Era andata troppo al largo, e il lago non le aveva permesso di tornare. E ora, nell’autunno solitario, quando il sole era enorme e l’acqua era enorme e la spiaggia lunghissima, ero andato là per l’ultima volta, solo. Continuai a chiamare il suo nome. Tally, oh, Tally! Il vento soffiava dolcissimamente contro le mie orecchie, così come soffia sulle bocche delle conchiglie per farle sussurrare. L’acqua si alzò, mi abbracciò il petto, poi le ginocchia, su e giù, da ogni parte, succhiandomi I calcagni. «Tally! Torna indietro, Tally!» Avevo solo dodici anni. Ma sapevo quanto l’amavo. Quel tipo d’amore che arriva prima di qualunque significato di corpo o di morale. Quel tipo d’amore che non è più cattivo del vento e del mare e della sabbia sdraiati vicini per sempre. Era fatto di tutti i lunghi giorni caldi sulla spiaggia, e di tutti i silenziosi giorni bisbiglianti del ronzante insegnamento a scuola. Tutti i lunghi giorni d’autunno degli anni passati, quando io portavo i libri di Tally da scuola a casa. Tally! Chiamai il suo nome per l’ultima volta. Rabbrividii. Mi sentii l’acqua sulla faccia, senza capire come ci fosse arrivata. Le onde non erano schizzate tanto in alto. Mi girai e mi ritirai sulla sabbia, e rimasi là per mezz’ora, a sperare di cogliere un’immagine, un segno, un pezzettino di Tally da ricordare. Poi m’inginocchiai e costruii un castello di sabbia, modellandolo con cura, costruendolo come ne avevamo costruiti tanti io e Tally insieme. Ma questa volta ne costruii solo metà. Poi mi alzai. «Tally, se mi senti, vieni a costruire il resto.» M’incamminai verso la macchia lontana che era la mamma. L’acqua salì, ammorbidì il castello cerchio per cerchio, appiattendolo poco a poco nella levigatezza originale. In silenzio, camminai sulla spiaggia. Lontano, una giostra tintinnò debolmente, ma era solo il vento. Il giorno dopo, me ne andai sul treno. I treni hanno memoria corta; presto si lasciano tutto alle spalle. Dimenticano i campi di granoturco dell’Illinois, i fiumi dell’infanzia, i ponti, i laghi, le vallate, le casette, i dolori e le gioie. Li sparpagliano dietro di sé, e loro si appiattiscono nell’orizzonte. Mi si allungarono le ossa, si coprirono di più carne, la mia mente cambiò per farsi più vecchia, buttai via i vestiti di mano in mano che non mi stavano più, passai dalle medie al liceo, poi ai libri universitari, ai libri di legge. E poi vi fu una ragazza, a Sacramento. La frequentai per un po, e ci sposammo. Continuai a studiare legge. A ventidue anni, avevo quasi dimenticato come fosse l’Est. Margaret suggerì di andare da quelle parti a trascorrere la nostra luna di miele tardiva. Come la memoria, i treni funzionano nei due sensi. Un treno può ributtarti addosso tutti i ricordi che ti sei lasciato dietro tanti anni prima.Lake Bluff, abitanti diecimila, spuntò nel cielo. Margaret era molto bella, nel vestito nuovo. Mi osservò, mentre io sentivo il mio vecchio mondo riprendermi dentro di sé. Mi tenne per un braccio quando il treno entrò nella stazione di Bluff e mentre il nostro bagaglio veniva portato fuori.Tanti anni, e che cos’avevano fatto alle facce e ai corpi della gente! Quando camminammo insieme per le strade della città non riconobbi nessuno. C’erano facce con qualche eco dentro di loro. L’eco di passeggiate sui viottoli di campagna. Facce con sopra l’eco di una risata, provenienti da scuole medie chiuse, da dondolii su altalene appese a ganci metallici, da su e giù per gli scivoli. Ma non parlai. Camminai e guardai e mi riempii di tutti quei ricordi, simili a foglie ammassate per essere bruciate, d’autunno. Ci fermammo due settimane in tutto, rivisitando insieme tutti i posti. Giorni felici. Pensavo di amare Margaret. Se non altro, lo pensavo.Fu uno degli ultimi giorni, che andammo sulla spiaggia. La stagione non era ancora inoltrata come quel giorno di tanti anni prima, ma sulla spiaggia c’erano già i primi segni della diserzione. La gente era più rada, i botteghini di hot dogs erano già chiusi e con le assi inchiodate, e il vento, come sempre, ci aspettava per cantarci la sua canzone.Quasi vidi mamma, seduta sulla sabbia com’era solita fare. Di nuovo provai quella voglia di restare solo. Ma non riuscivo a costringermi a dirlo a Margaret. Rimasi con lei e aspettai. Il giorno andò verso la sua fine. La maggior parte dei ba ini erano andati a casa, e restavano pochi uomini e poche donne a crogiolarsi al sole ventoso. La barca del bagnino si avvicinò alla riva. Il bagnino ne scese lentamente, con qualcosa sulle braccia.Rimasi immobile. Trattenni il fiato e mi sentii piccolo, di soli dodici anni, molto piccolo, molto infinitesimale e pieno di paura. Il vento sibilava. Non riuscivo a vedere Margaret. Vedevo solo la spiaggia e il bagnino che emergeva dalla barca con in mano un sacco grigio non molto pesante, e la sua faccia quasi altrettanto grigia, e segnata. «Resta qui, Margaret» dissi. Non so perché lo dissi.«Ma perché?»«Resta qui e basta.» Camminai lentamente sulla sabbia fino al bagnino. Lui mi guardò. «Che cos’è?» chiesi. Il bagnino continuò a fissarmi, a lungo, senza riuscire a parlare. Posò a terra il sacco grigio, e l’acqua frusciò attorno al sacco, lo bagnò, si ritrasse.«Che cos’è?» insistetti.«È morta» disse piano il bagnino. Aspettai.«Strano» mormorò. «La cosa più strana che mi sia capitata. È morta. Da molto tempo.» Ripetei le sue parole. Annuì. «Dieci anni, direi. Non è affogato nessun bambino, qui, quest’anno. Dal 1933 ne sono affogati dodici, ma li abbiamo ricuperati tutti dopo poche ore. Tutti, tranne uno, a quanto ricordo. Il cadavere, qui, dev’essere stato in acqua per dieci anni. Non è… piacevole.» Fissai il sacco grigio. «Lo apra» dissi. Non so perché lo dissi. Il vento era più forte. Lui armeggiò attorno al sacco. «So che è una bambina solo perché porta ancora un medaglione. Non resta molto altro per capirlo.» «Svelto, lo apra!» gridai. «Preferirei di no» disse lui. Poi, forse, vide la faccia che dovevo avere. «Era così piccola…» Aprì il sacco solo in parte. Bastò. La spiaggia era deserta. C’erano solo il cielo e il vento e l’acqua e l’autunno che arrivava solitario. Abbassai lo sguardo su di lei. Ripetei qualcosa, più volte. Un nome. Il bagnino mi guardò. «Dove l’ha trovata?» chiesi. «Sulla spiaggia, da quella part
e, nell’acqua bassa. È passato molto tempo per lei, vero?» Scossi la testa. «Sì. Oh Dio, sì.» Pensai: la gente cresce. Io sono cresciuto. Ma lei non è cambiata. È ancora piccola. Ancora giovane. La morte non permette di crescere o di cambire. Ha ancora i capelli d’oro. Sarà giovane per sempre ed io l’amerò per sempre, oh Dio, l’amerò per sempre.Il bagnino legò di nuovo il sacco. Pochi minuti dopo camminai da solo sulla spiaggia. Mi fermai e abbassai lo sguardo su qualcosa. Qui era dove il bagnino l’aveva trovata, mi dissi. Qui, al bordo dell’acqua, c’era un castello di sabbia costruito a metà. Proprio come li costruivamo io e Tally. Metà lei, metà io. Lo guardai. M’inginocchiai vicino al castello e vidi le piccole orme che venivano dal lago e tornavano di nuovo al lago e là sparivano. Poi … capii. «Ti aiuto a finirlo» dissi. E lo feci. Costruii il resto del castello molto lentamente, poi mi alzai, mi voltai e mi allontanai, in modo da non vederlo sparire nelle onde, come spariscono tutte le cose.
Risalii lungo la spiaggia fin dove una strana donna chiamata Margaret mi aspettava, sorridendo…
One Comment
klaus
ok, devo andare a rileggere Bradbury… troppi anni fa ormai.
a presto, coach
k.