mitografia del quotidiano
Pensieri, Parole, Opere e Omissioni…
Pensieri, Parole, Opere e Omissioni…
(ovvero due o tre cose che credo di aver capito della mia vita)
Sono nato posseduto dal desiderio e dall’energia per comunicare una mia visione poetica del mondo.
Ai soldatini, alle armi e alle biciclette ho preferito da subito i colori, affascinato dalla figura del pittore.
Un destino da subito immaginato.
In vacanza,1971
Ogni essere vivente custodisce una scintilla d’immortalità che si manifesterà attraverso diverse forme, le più comuni, i figli o l’Arte: “Vivi come dovessi morire domani, pensa come non dovessi morire mai”.
Un essere umano che passati i quarant’anni non abbia concretizzato la posizione sognata è facile che possa esser essere preda di depressioni indotte dalla delusione per il mancato raggiungimento dello scopo.
Quando si è giovani si sognano mille cose, le giornate trascorrono innervate d’energia volte all’ottenimento di ciò che consideriamo la nostra priorità che, una volta raggiunta, verrà sancita dall’espressione “…è questo ciò che volevo”.
La prima parte della vita è orientata all’espansione e si focalizza nella concretizzazione di una o più mete.
Nella seconda parte della vita è lecito sopravvenga l’interrogativo se continuare a muoverci secondo le coordinate che abbiamo appreso in una continua rincorsa al risultato, o se occorra un cambio di punto di visuale in virtù della meta più grande che aspetta ognuno di noi: la Morte.
La seconda parte dell’esistenza “rilegge la prima” attraverso la sua rievocazione.
Il tempo vola ma la fotografia è in grado di fermarlo anche per aiutarci a “ricordare”.
In braccio a mio Padre 1964
Mio padre, classe 1930, raccoglie un pallone. Il suo corpo e la sua mente tengono a memoria un gesto “passato” (da ragazzo giocava in una squadra di pallacanestro), prova a fare un canestro e per tre volte fallisce poi, fattosi sotto, riesce nell’intento.
“…Caro mio sapessi quanto è brutto invecchiare, si rincoglionisce …”. Nella sintesi che gli è propria quella frase racchiude molto di più: una saggezza schierata sul campo da tempo, la decisione di rinunciare alla patente e all’auto nell’ottantesimo compleanno, accettare gli amici che uno dopo l’altro s’ammalano e muoiono. Le energie che decrescono hanno ceduto il passo alla serena consapevolezza che tutti dobbiamo assecondare il ritmo delle cose della vita. Grazie a anni d’analisi ho compreso quella parte di lui che contrastavo, così simile alla mia sebbene declinata su altra tékhne.
I suoi silenzi, quando mi sarei aspettato una frase o un gesto che mi venisse incontro, raccontano la natura di un uomo generoso, complesso e sopra le righe. Quando oggi, di rimando, qualcuno si immagina da me una reazione, un assenso, una risposta che talvolta non arriva cade nel mio stesso errore d’adolescente, ovvero quello di fermarsi alle mere contingenze, a un rapporto fondato sul “dare/ avere” al quale per abitudine, volente o nolente, ci siamo conformati. Se da un punto di vista teologico accetto come molti altri credenti il silenzio di Dio, perché ho gridato e sbattuto le porte in faccia a mio padre?
Pensare che il silenzio non sia una risposta o sia disattenzione ci fa scivolare su un piano “superficiale e frettoloso” al pari dell’epoca che stiamo vivendo. Gina Lagorio scrisse: “La gioventù non è paziente, non può aspettare di essere felice”.
Ho scoperto giovanissimo la capacità empatica di entrare in relazione col prossimo, abilità mossa dal piacere di conoscere l’altro. Nel tempo ho portato questa attitudine prima nel lavoro di fotografo ritrattista e, successivamente, in quello di docente. L’esercizio di questa facoltà, nel tempo, ha mutato prima il ragazzo e poi l’uomo Alberto. Oggi non mi stupisco più se dei perfetti sconosciuti incontrati sull’autobus o per strada sentono la necessità di raccontarmi le storie e gli affanni della loro vita, così come spesso fanno amici o allievi.
Non essendo un terapeuta, semmai il contrario, reagisco come una spugna, perciò devo dosare con parsimonia queste confessioni pena raggiungere il colmo. Spesso chi è sprofondato nel dolore esistenziale fatica a misurarne la portata e la esperisce nella forma di confessione, in uno stato di semi incoscienza che fa perdere la misura di quanto l’altro può accogliere o sopportare. Anche io, talvolta senza rendermene conto, investo col mio dolore le altrui esistenze.
Se dovessi trovare un’immagine per rappresentare questo mio stato empatico, userei quella di un bambino che disordinatamente corre in un campo di grano tenendo le braccia aperte che, come ali d’aeroplanino, sfiorano delicatamente le teste dei papaveri.
Ho costruito trent’anni fa, a partire dal mio vivere, una metodica per fare e insegnare fotografia definendola per semplicità “mitografia del quotidiano”. La fotografia trasforma il mondo al pari di chi la fa, e il suo primo compito è quello di “raccontare le storie dell’uomo”.
Susan Sontag scriveva che: “Collezionare fotografie significa collezionare il mondo”.
La fotografia che narcisisticamente guarda solo sé stessa fa un pessimo servizio alla collettività.
Gli stati d’animo generano un movimento nelle forme. Le infinite direzioni dello sguardo “svelano e rivelano” le coordinate del viaggio all’interno dell’essere umano.
In questa istantanea realizzata durante le prove del Genoa Songwriters Festival, raffiguro tre generazioni: Giua, prova i suoni sul palco prima di un concerto sotto gli occhi di suo padre che le ha trasmesso l’amore per la musica e di suo figlio Agostino.
Due sguardi al maschile, il nonno e il nipote, riportano a due diverse età della vita.
Da decenni ormai non trascorre una giornata senza che io abbia scritto, pensato o fatto della Fotografia. Guardare con amore appassionato le cose del mondo è un modo per essere riconoscenti verso il dono più grande che abbiamo ricevuto, la vita: “Ho compiuto tutto ciò che mi avevi dato da fare”.
“Amare la fotografia significa avere cura del tempo, il nostro e quello dell’Altro”.
L’atteggiamento critico che ho verso i rituali collettivi, le pratiche di massa e le tribù metropolitane è antico, lo esprimevo già ai tempi del liceo, sia verso le istanze del movimento studentesco come nei confronti della rivolta punk. Perseguo da sempre la “non appartenenza” pur lavorando, specie didatticamente, sul concetto di gruppo.
Nel 1993 iniziando il lavoro sull’Angelo lo scrissi: “Le forme simboliche vuote, ricevono l’immaginario delle masse. Preferisco abitare la periferia del sistema, nella quotidiana sospensione tra il Paradiso e l’Inferno di ogni mia giornata”.
Tutto cominciò in prima liceo (1975). Mi tuffai in certe letture, vissi in solitaria la coda della controcultura e della controinformazione. Divoravo testi che mostravano le lusinghe del potere verso le masse e come queste fossero manipolabili attraverso i media. Passai dai testi di stampa alternativa a autori come Marshall McLuhan e J.L. Aranguren.
A monte di una formazione di questo tipo, diventa ovvio il mio scetticismo verso il fenomeno smartphone e la nuova razza “monomano”, eternamente impigliata nella rete come una mosca.
Pur esercitando l’Arte del “grande ricordatore”, resto fedele all’hic et nunc, al qui e ora.
In questo contesto mi sento “vivo” e motivato a realizzare le mie fotografie.
Un triste pomeriggio 1967
Quando sono triste mi allontano da tutti per ripensare a quei momenti della vita che hanno come unico editore il mio cuore.
Nella prima fase della mia esistenza, quella legata all’espansione, ho lavorato duramente per garantire uno spazio e un’autonomia alle mie immagini. Ho scelto di operare senza galleristi (unica eccezione nell’anno 1998 con Bianca Pilat), gestendo completamente da solo ogni aspetto del mio “fare”, dalla creazione alla produzione finale includendo la promozione e il conseguente rapporto con la stampa. Non ho deciso così pensandomi in grado di ricoprire tutti questi ruoli, ma ho appreso le modalità “strada facendo”. La (parziale) libertà che posso garantire alle mie opere ha un rovescio della medaglia che si ripercuote sulla visibilità dell’autore: gli aspetti più evidenti sono la minor veicolazione del “nome” e una quotazione delle opere invariata negli ultimi 15 anni. Tutto questo, ne sono ben conscio, fa parte di un’idea “romantica” e utopica, per far sì che il mio manufatto non venga inquinato da chi vende l’arte e l’artista unicamente perché è un business, chiedendogli di assecondare le forme che il mercato dell’Arte chiede o predilige.
Il primo moto che mi spinge alla “creazione” fa capo alla frase con cui apro questo scritto: “Sono nato posseduto dal desiderio e dall’energia per comunicare una mia visione poetica del mondo”.
L’atteggiamento d’impianto francescano nei confronti dell’operatività si è dovuto dialettizzare con aspetti di natura logistica ed economica, necessari alla sussistenza di ciò che creo. La risultante ha offerto il fianco ai detrattori che, di volta in volta, hanno mosso attacchi generati probabilmente dalla frustrazione per non essere riusciti nella fase di espansione a concretizzare il risultato cui aspiravano.
Da anarchico convinto mi sono mosso sempre con le mie forze, lontano da schieramenti e lobby. La mia famiglia ha supportato ideologicamente (a monte di parecchi contrasti a partire dall’adolescenza sino alla laurea) le mie istanze di creatività senza potermi offrire amicizie importanti volte ad agevolare una strada di comprovata difficoltà. Per amore del fare ho sposato spesso cause e progetti investendo del tempo e le mie qualità visionarie a discapito di un più semplice e immediato ritorno economico. Questo unicamente perché quanto si era palesato era sufficiente per garantire la mia totale adesione al progetto. Ricordiamoci che il fotografo è in primis un mestiere. In rare occasioni, quando il tempo relativo al progetto finiva a declinarsi su uno o due anni, ho accettato dei rimborsi spese a monte dell’impegno profuso. Per come la intendo, la fotografia è il mezzo privilegiato per una migliore conoscenza di sé e dell’altro. L’analisi fatta per cinque anni mi ha fatto ragionare su molti accadimenti, sulle gioie e sulle inevitabili delusioni che ogni azione da noi svolta può comportare. Come tanti ho le mie chiusure e delle forme di sano egoismo rivolte a preservarmi, in un panorama dove troppi fanno le gare per raggiungere uno status: “il migliore”.
“Come diventi una celebrità subito trovi qualcuno che ha bisogno di farti a pezzi” (Manuel Pirsig –Lila).
C’è e ci sarà sempre uno più bravo di noi, uno più accogliente, uno più disattento, uno più propositivo, uno più timido e uno più spregiudicato, perché questa è la natura umana.
“Se tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito, se si vede il proprio lavoro trarre la sua ragion d’essere e proiettarsi al di là, si lavora più serenamente”. (Vincent Van Gogh, lettera a Theo).
One Comment
Luisa Casiraghi
Sono profondamente vicina alla poetica
“dell’invisibile” di Alberto Terrile, ed i suoi territori immaginativi sono un “respiro” per gli occhi e un nutrimento per il corpo, che cerca leggerezza e calore. E la sua “cura del tempo” – attraverso la fotografia – mi fa pensare agli alberi secolari e alle loro radici: in un prolungamento dell’infinito che trova sostegno e attenzione. Semplicemente. Senza fronzoli inutili. In una nitidezza stesa accanto alla linea dell’orizzonte, che, cortese, prolunga la sua lucentezza, in tranquillità. Verso di noi. Grazie Alberto.