mitografia del quotidiano
Sono tornate le lucciole
Cà Guaiumi è sita in una conca, nascosta tra gli alberi e vede il sole unicamente al mattino.
Apro la casa e spalanco le finestre, voglio che entri luce, più luce possibile. Nella seconda metà della vita ho scoperto l’amore per la luce, credo per me sia un processo naturale. Dopo aver scaricato il bagaglio esco e scendo nel campo, raccolgo dei fiori: bianchi, fucsia e gialli. E’ una carezza, la decisione di regalarmi un bel mazzo da mettere al centro della tavola in legno. Quando faccio colazione attorno alle sei mi perdo in quei fiori, contemplo la luce del mattino che li sfiora, penso alle api e alle farfalle che gli danzano attorno mentre il sapore della melata di bosco scende dalla gola giù sino al cuore .
Quando ero bambino c’era un quadro appeso in sala che rappresentava una marina, molto tempo dopo finì in cantina, appeso di fianco a una vecchia credenza in formica bianca e verde. Le cose che terminano d’essere utilizzate finiscono in quello spazio limbico per un tempo indefinito prima di venire smaltite, la stessa cosa succede con gli anziani.
Per me non è mai stato semplice separarmi dagli oggetti, credo trattengano fili d’anima di chi li ha utilizzati. Allo stesso modo ho dovuto imparare a lasciare andare via le persone, la vita ce lo insegna.
La solitudine non è qualcosa al di fuori di noi, semmai un abisso che s’apre nel cuore dell’anima.
Sono tornate le lucciole, come nelle estati bambine, le estati lontane in cui restavo a giocare fuori col buio, le estati che vedevano quei volti e quelle voci che oggi esistono unicamente come ricordi. Allentare la stretta, aprire la mano, lasciar scivolare via tutto ciò che il tempo inesorabilmente cambia o distrugge.
Quante tradizioni umane in una forma di ristagno vorrebbero perpetuare ciò che non potrà mai esser perpetuato, il materiale, il contingente, le abitudini, le vesti e i pensieri, tutto muta per dar luogo a qualcosa d’altro.
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