Varie
Agnes Obel
Agnes Caroline Thaarup Obel è nata il 29 ottobre 1980 impara a suonare il piano in giovane età. Sua madre suonava Chopin e Bartók al pianoforte. Durante la sua infanzia, Agnes trova ispirazione nella musica di Jan Johansson. Le canzoni di Johansson hanno influenzato molto il suo stile: folk europeo con accordi jazz. Il suo primo album Philarmonics è stato premiato con il doppio disco di platino
Agnes Obel Philarmonics di Raffaele Russo
Cantautrice danese trapiantata a Berlino, Agnes Obel potrebbe apparire soltanto come l’ultima arrivata nella lunga schiera di “donne al piano” la cui espressione artistica è prevalentemente impostata sulle romantiche note di quello strumento e su ballate ariose e più o meno nostalgiche.
Ebbene, l’impressione superficiale, nel caso di questa autrice al debutto (e dal background ancora assai misterioso), non potrebbe che rivelarsi fuorviante, poiché per compostezza, espressività melodica e capacità compositiva e di scrittura, il suo “Philharmonics” rappresenta una fresca e piacevolissima sorpresa che si affaccia nell’ampio e variegato mondo del cantautorato al femminile.
Pervenuta dal nulla a un contratto major con PIAS (la stessa etichetta che un anno e mezzo fa teneva a battesimo una certa Anja Plaschg…), Agnes Obel ha visto utilizzare un suo brano – “Just So” – nello spot televisivo del colosso tedesco delle telecomunicazioni. Non che ciò abbia costituito un volano decisivo per la sua notorietà, tuttavia le note adamantine del suo pianoforte si erano già fatte strada, quanto meno nel pubblico tedesco, ancor prima di pubblicare l’album, peraltro realizzato attraverso una stimolante collaborazione con un artista solo in apparenza lontano dal neoclassicismo bucolico delle sue piéce per piano, quale Dan Matz dei Windsor For The Derby.
Tre strumentali, una cover e otto canzoni originali costituiscono il biglietto da visita dell’artista danese, che nei quaranta minuti scarsi di “Philharmonics” confeziona una serie di quadretti melodici atemporali, tanto ripiegati verso una dimensione domestica – folkish o classicista che sia – quanto protesa ad ambientazioni trasognate, moderne soluzioni cameristiche, senza disdegnare qualche sfumatura più tenebrosa.
Il tutto è reso secondo una costante di compostezza e austerità, fedelmente riassunta dall’artwork e dalla confezione del cd e già testimoniata alla perfezione dalla sequenza iniziale del disco, affidata alle limpide iterazioni di piano solo di “Falling Catching” e al singolo “Riverside”, elegia che sa di inquieta solitudine, ma trova nella voce di Agnes pregevole movimento e cristalline aperture melodiche. Verrebbe quasi spontaneo evocare subito i nomi di Kate Bush e di Tori Amos, ma per fortuna basta poco per rendersi conto di trovarsi in presenza di un’artista dalla spiccata personalità, in grado di offrire una rassegna di suggestioni mutevoli, anche attraverso una linea narrativa che bilancia registri folk e sottile malinconia, e secondo una progressione strumentale e di arrangiamenti che lungo il corso dell’album si arricchisce di ulteriori elementi, lasciando scemare comparazioni troppo facili e senz’altro riduttive. Basti vedere il tocco trasognato conferito da Dan Matz attraverso flebili beat e tastiere liquide a “Brother Sparrow” e “Avenue”, il romanticismo degli archi di “Over The Hill”, nonché le punte drammatiche che si affacciano nelle interpretazioni goticheggianti della title track e di “On Powdered Ground” (e qui sì che si potrebbe lontanamente pensare a Soap&Skin) e in quella eterea e inarcata di “Beast”, nella quale l’artista danese mostra di sapersi cimentare in maniera credibile anche con l’arpa.
Al graduale mutare dei contesti strumentali – che restano pur sempre incentrati su un pianoforte ora fluido ora foriero di iterazioni sorde – corrisponde un parallelo adeguamento dei registri interpretativi. Agnes Obel sa infatti essere fragile e suadente, ma si mostra anche capace di torsioni spettrali e comunque portatrice di un’intensità espressiva sempre perfettamente adeguata ai suoi testi asciutti ed essenziali, e addirittura esaltata nell’ardita cover di John Cale, “Close Watch”, uno dei tanti picchi di un esordio che si candida già con autorevolezza a una collocazione di assoluto rilievo tra le produzioni al femminile offerte dall’annata discografica che volge al termine.
http://www.youtube.com/watch?v=EwR53x5s1bc
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