Varie
Massimo Morasso Nell’angelo di Terrile
Ogni fotografia è un dialogo con l’invisibile. Un gesto, cui corrisponde una tecnica, che insegue il lato nascosto di un’immagine. E mette in scena in forme misteriosamente quintessenziali quella “apparizione unica di una lontananza” di cui parla Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia.
Nel caso di scatti, come qui accade, che hanno l’ambizione di confrontarsi con uno dei grandi archetipi dell’idea stessa di lontananza, ovvero con l’intreccio spazio-temporale dove si staglia, nello stato diafano dell’immaginazione, la figura (il concetto?) dell’angelo, ecco che quel dialogo diventa un incontro-scontro con una delle costellazioni simboliche di maggior densità nel lungo percorso della nostra tradizione culturale.
Il secolo scorso appare, retrospettivamente, come il secolo del ritorno dell’Angelo. Il firmamento della letteratura e della pittura del ‘900 vivono un’ossessione dell’angelico al fondo della quale urgono questioni ultime che stanno sotto i nomi di Dio, del senso della storia e del male. Da Rilke a Stevens, passando per Kafka, Chagall, Alberti, Klee, Goll, Licini e una sequela lunghissima di altri, l’angelo è tornato prepotentemente a testimoniare l’anelito oltre-umano nell’uomo appiattito al sensibile dopo la svolta antropologica del moderno.
Anche oggi, nell’epoca del postmoderno avanzato, l’incontro con l’angelo come esercizio di penetrazione simbolica della realtà è possibile solo a chi abbia saputo accecare gli occhi del corpo per aprire quelli dello spirito: non è forse vero che il nostro sguardo si forgia sempre di nuovo nell’apprendimento della visione? Di questo, di un inconcludibile apprendistato al rifiuto del realismo della realtà, si può intuire la necessità epocale facendo cadere nei nostri occhi le immagini di Terrile con tutta l’ampiezza del loro peso.
Queste fotografie raccontano di un mondo intermedio sospeso fra terra e cielo, un mondo di idee-immagini, di corpi sottili. Fissano in attimi di conoscibilità presenziale le forme in divenire in cui un passaggio va verso un significato.
Scrive Terrile che “l’Angelo è la sensibilità del reale che personifica una direzione e un senso che ha la sua origine nella divinità ma la cui traiettoria passa attraverso il mondo umano”. Dice dunque, Terrile, che qualcosa che è cielo nella nostra carne fruga lo spazio percettivo e cognitivo dell’angelo. E ricorda con la forza di ciò che è implicito che il carattere fondativo delle immagini non si radica dentro di noi se non nei luoghi della rappresentazione dell’esperienza umana. Prima ancora che una figura di qualcosa o qualcuno, l’angelo di Terrile è un nunzio di luce in quanto luce rivelatrice che orienta, che fa vedere.
Così è nella fotografia Olga G Lago Scaffaiolo 19 agosto 2000 ore 18-30, con la figura femminile librata come per emersione a pochi centimetri dall’acqua: dove il doppio fantasmatico dell’angelo accenna a un suo paradossale, ulteriore simulacro (l’ombra di una verticale che si inabissa fuori obiettivo ne è indice). Tutto qui, ogni dettaglio, ogni pietra, ogni nuvola, ogni vibrazione di luce sulla superficie increspata del lago sfolgora sub specie aeternitatis. E tuttavia niente rassicura, l’inconoscenza estatica non dà a accesso a nessuna conoscenza, e il nostro sguardo, “umanamente” smarrito, è catturato più dal ritmo di un terraneo chiaroscuro formale che da quel profilo aereo concentrato nell’interrogazione di un’infinita distanza, di un inavvicinabile Non-Dove.
In molte immagini, la cupa, assorta fissità dello sguardo rimanda all’enigma di un’incompiutezza ontologica. L’uomo è un animale destinato a diventare Dio, ha scritto Basilio di Cesarea. E gli angeli di Terrile sembrano scontare, incisa dentro la duttile creta dei loro volti accigliati, una duplice discontinuità, uno scacco tanto in rapporto all’uomo quanto in rapporto a Dio.
Promesse di mediazione fra la dimensione dello storico-sensibile e quella di un irrapresentabile paesaggio ultraterreno, le figure di Nelli, Anna Sophie, Francesca, Alessandra, Anna, Florence e tutti gli altri (o non, piuttosto, tutte le altre? Quanti angeli-femmina abitano questo inquieto, ossessionato work in progress!) non sanzionano alcuna rottura col corporeo e col mondano. Piuttosto, emblemi di un’attenzione indistraibile, danno espressione di un’autosufficienza – ciò che è proprio della semplice, “dignitosa” epifania del vivente – e, insieme, di un’inadempienza – che è inscritta, tragicamente, nell’incapacità di percorrere per più di un breve tratto quell’impossibile destino antropocosmico profetato da Basilio. La nostalgia del divino si manifesta qui senza eludere il confine che la rivela e sostiene. Adesso, l’antico privilegio dell’Angelo si è trasformato in un campo di tensioni, per riaffiorare, a volte, sugli intricati sfondi bidimensionali di un dramma senza redenzione.
Pensiamo, ponendoci in ascolto dell’Altro irriducibile che attraversa le fotografie, alla figura dell’angelo come a una figura di meditazione e invocazione. Come a una cifra dell’illuminazione profana. Delle gloriose gerarchie di guardiani/mediatori non resta nel lavoro di Terrile che una memoria sbiadita, frammentata, dispersa nella fisiognomica di bocche dalle quali non s’aspetta più nessun Messaggio, nei gesti di mani che non svelano, ma, anzi, tracciano labirinti ammiccando a un’altra parte della vita, ad aree d’esperienza che restano, per noi, letteralmente fuori luogo. Perché l’angelo di Terrile non supera in nulla la conoscenza umana riguardo alle cose ultime. Come alcuni di noi, infatti, contempla anch’egli un Invisibile, è in attesa – e nel pieno, assoluto nunc instantis di quella attesa testimonia il mistero in quanto mistero, l’amore di tutto con l’addio.
La spaccatura della modernità ha provocato più di un cataclisma iconografico. La natura segnica dell’orizzonte figurativo concepito da Terrile in questa serie di fotografie vive della profonda ambiguità di un tempo per il quale la frattura fra segno e significato è già, per così dire, archeologia. Ein zeichen sind wir, deutunglos. Noi siamo un segno senza significato, ha scritto oltre duecento anni fa uno dei più intensi araldi dell’angelico, Friedrich Hölderlin.
E l’ultima fotografia, la fotografia Miriam F Iola di Montese 1 agosto 2005 ore 16-07, dice proprio della difficoltà di Terrile a mantenere un rapporto organico, plasticamente ed espressivamente, tra la terra e il cielo dell’immagine. Le figure della mediazione risorgono sempre quando scompare un mondo. Ma nel punto in cui svanisce anche il confine tra il fisico e il metafisico, queste figure non riescono più a stare soltanto nelle loro epifanie riconoscibili. Si internano, si mimetizzano, si fanno astratte. L’angelo, lontanissimo, di spalle, qui non occupa più che uno spazio liminare della visione. Si muove nella sua stessa irradiazione, è tutto, ormai, nel suo imbricarsi all’aldilà dell’orizzonte. In primo piano, strambo, imprevedibile impasto di visionarietà e scienza, c’è un oggetto che ci riporta alla lucida, appassionata astrazione degli angeli-razzi di Licini, o dei suoi missili. Abbiamo davanti l’ipostasi o, forse, un ologramma mentale dell’angelo come immaginazione esplosa, fuori di sé. Paradossale, problematica angelologia di Terrile, dove a una sola avventura è dato di abbracciare mondi e intelligenze separate.
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