Ritratti
Nell’occhio di chi guardo….
…in 35 anni di foto…lo stesso letto…la stessa finestra…la stessa strada…non sono le location che fanno la foto…..ma il rapporto che instauri con il soggetto fotografato…..dietro ai vetri hanno posato per me divi e persone di tutti i giorni…Nelle mie rappresentazioni il soggetto umano diventa un interno sobriamente arredato, mentre l’interno si fa soggetto spoglio, caricandosi non tanto di segni, quanto della tensione dell’attesa. L’attesa è quella di un evento che non accadrà se non nell’occhio di chi guarda. La contemporaneità intesa come luogo di mode e modalità non mi sfiora neppure, non mi interessano gli stili e quanto connota la nostra epoca, perché non mi interessa il tempo, una convenzione dell’uomo, paradossalmente lo uso….. senza l’equazione tempo/luce un’immagine fotografica non può esistere. Intrattengo col tempo un rapporto incosciente, come il bambino che non s’accorge che è tardi e deve rientrare a casa.
Nel 1998 Viana descriveva così il mio lavoro
Alberto Terrile, ricostruttore dell’aura perduta.
(Viana Conti)
Bianco e nero non sono una deprivazione del colore nelle fotografie dell’artista Alberto Terrile: ne sono la saturazione fino al ribaltamento della negazione. L’effetto sullo spettatore è quello che si prova rivedendo oggi un film degli anni trenta: non c’è biondo più incendiario di quello delle star platinate di quegli anni, né curve più rosee di quelle di allora, in bianco e nero. Ma Terrile non è un nostalgico, è al contrario un contemporaneo che ha trovato, attraverso la sua tecnica in camera oscura, la tonalità del suo linguaggio. E’ attraverso di questo che le scale di sicurezza che ombreggiano la facciata di un hotel newyorkese, le biciclette posteggiate di coltello in una strada di Firenze e la segnaletica di Parigi fanno un salto nel passato e da lì impressionano lo spettatore, lo catturano in quell’alone di luce che li rende unici, irripetibili e indimenticabili. La sua capacità di mettere in distanza l’istantaneità del presente ne fa un sensibile ricostruttore di auree perdute. Il senso di irriproducibilità che emana ogni sua foto, contrastando la natura stessa del mezzo tecnico, ne fa un pezzo unico. L’unicità è un effetto da cui la sua opera non può prescindere: sia a livello tecnico che a livello di visione. Il taglio della foto, la schermatura della luce, l’istantanea in posa del soggetto e la stampa a tutto negativo tratteggiano una sorta di ritratto dell’autore, dove elemento saliente è la consegna alla tridimensione della scrittura bidimensionale fotografica.
Nelle sue rappresentazioni il soggetto umano diventa un interno sobriamente arredato, mentre l’interno si fa soggetto spoglio, caricandosi non tanto di segni, quanto della tensione dell’attesa. L’attesa è quella di un evento che non accadrà se non nell’occhio di chi guarda. Non c’è foto nel suo lavoro che rinunci ad annettersi la contemplazione dell’osservatore ed a espandere il suo schermo di proiezione.
E’ come se Alberto Terrile fosse tutti i ritratti che ha scattato, senza distinzione di sesso, come se fosse tutti gli attori, danzatori, cantanti, musicisti, equilibristi, narratori, filosofi, bambini, folli, che il suo obiettivo ha inquadrato e il suo linguaggio riscritto.
E’ come se ogni foto accadesse nello scatenarsi di un temporale: è la sua interiorità che produce il lampo che acceca l’esterno plumbeo, dove i dettagli, tuttavia, si drammatizzano nei contrasti, brillano di luce fredda, dove i banale si carica di assurdo, l’erotismo di poliziesco. Perfino i suoi “angeli”, tematica di una sua recente mostra al museo del Petit Palais di Avignone, disinvolti o corrucciati, in ascesa o in discesa, non intendono liberarsi della propria ombra, sembrano anzi esserne il pretesto.
Non è infrequente che l’artista operi uno scambio di aura, immettendo le star internazionali in un clima quotidiano, domestico, quasi a restituir loro l’intimità perduta negli impudenti attacchi dei mass-media, mentre i soggetti anonimi vengono caricati di destino, intensità, futuro.
Spostandosi da una metropoli all’altra, cogliendo soggetti in fuga o in posa, l’artista genovese non si automatizza nel click, ma presta il suo occhio all’obiettivo rispettandone anche, in qualche modo, l’autonomia. Questo a sua volta, riconosce in soggetti, oggetti, ambienti, strade urbane, il vissuto dell’autore, leggibile in un’interminabile storia di scatti.
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